Un rigore decisivo, sbagliato all'ultimo minuto. Il paragone calcistico regge bene, perchè "L'uomo che guarda" per Brass stesso e per il suo pubblico abituale avrebbe potuto svelare la summa figurativa del pensiero voyeuristico, sulla quale si è basata la "rinascita" artistica del cineasta veneziano. E invece cosa accade? Che il film si svela noioso, inesorabilmente lento, penalizzato da una monotonia che distoglie dalla solita pregevolezza tecnica: buona fotografia, musiche allegre, giochi di montaggio brassiano di routine. Povero Moravia e che tristezza vederlo citato come fonte d'ispirazione fra arnesi in lattice ed erezioni "speciali". Il brusco cambiamento di "stile" che accompagna Tinto, per comprensibili ragioni commerciali, dalla svolta di "Paprika" va incontro ad una irrimediabile caduta, tanto da sconcertare e spazientire persino i pochi gaudenti riuniti in sala.
Nel romanzo originale l'uomo che guarda era un povero professorino trentacinquenne che si vedeva soffiare la moglie dall'anziano genitore (ma è "Il danno" di Louis Malle?). Nel film "liberamente ispirato" è invece l'irriconoscibile regista con la fissa dei camei hitchcockiani che si fa spiare, spiando a sua volta, da una donna tutta sola per poi sbucare con un trompe-l'oeil su un armadio prima dei titoli di coda. Il repertorio è vario ma allo stesso tempo deprimente: un irrecuperabile Franco Branciaroli, straordinario animale da palcoscenico, che truccato con una ridicola pelata se ne sta tutto il giorno a letto, giocherellando allegramente con una camerierina senza pudori. Suo figlio Francesco Casale, abbandonato senza motivo dalla sua compagna, fantastica avventure extraconiugali davanti allo specchio del bagno. Le delusioni sentimentali del protagonista sono scatenate da un trauma infantile: sbirciando nella stanza dei suoi genitori dovette assistere ad una normalissima esibizione di sodomia matrimoniale. Paura e sconcerto: non è sotto questa forma che si può scoprire l'amore.
Tutto ciò che nel romanzo è letterariamente accennato, nel film di Brass è sguaiatamente esasperato. A cominciare dai dialoghi che sono cinematograficamente goffi. Privandosi di un giusto ritmo e di uno spirito beffardo il film gira a vuoto intorno alla medesima immutabilità di soggetti, luoghi, arredamenti, frasi. Certo Katarina Vasilissa è a nostro avviso uno dei corpi recitanti più espressivi ed eleganti esposti nella sua oscena vetrina e la sequenza d'apertura con uno strip-tease al contrario (il vestirello) e il gioco elegante della calza nascosta rievoca un certo cinema d'immaginazione che purtroppo si appanna con l'abbuffata conseguente.
Fra deja vu, camei e narcisismi vari, Brass scivola nel ripetitivo gioco di citazioni del suo stesso cinema. La scelta cade ancora una volta su "La chiave", con il quale non c'è mai più stata storia. Nonostante tutti i suoi sforzi la riuscita di questo capolavoro erotico italiano non è facilmente ripetibile. E le forzature dei tempi premono verso un priapismo da rivista da caserma. Se le donne vanno "prese" e non comprese, il Tinto nazionale questa volta ha l'ispirazione in caduta libera. E l'attrice bruciata in fretta che difficilmente rivedremo vestita (mai più con il suo talent-scout, certamente) si farà rimpiangere senza avere la prova d'appello, perchè, davvero, non recita solo con le gambe.
Cinema Royal, Bari - Febbraio 1994 |