Fa più danni il colonialismo o la diversità? Cosa ci rende veramente sicuri: la sottomissione degli altri o la certezza della nostra superiorità? Film complesso, estremo, realizzato interamente in Brasile con capitali italiani "La terra degli uomini rossi" sembra uscito dal cilindro di Werner Herzog, talmente è affascinante e perfetto nel suo aspetto formale. Non lascia spazio ad interpretazioni da parte dell'autore, nè a metafore, nè tanto meno a schieramenti. Marco Bechis (di origine cilena) è un cineasta che in Argentina ha provato sulla sua pelle la sopraffazione e conosce la materia, non ha interesse a mandare messaggi diretti ma si limita a documentare quello che potrebbe concretamente ripetersi, dopo i secolari genocidi ai danni degli indios. Per questo motivo il suo film racconta un potenziale conflitto razziale fra i bianchi invasori e i rossi che si vedono rubare la loro terra. La storia si svolge ai giorni nostri in Mato Grosso. Le fazende gestite dai bianchi sono vere e proprie aziende agrituristiche dove altri bianchi si illudono di stare a contatto con la natura selvaggia, qui rappresentata appunto dagli "uomini rossi" che armati di frecce e di strani indumenti tribali assistono passivamente al passaggio delle barche sul fiume. I turisti non sanno che gli indios sono pagati dalle guide per recitare la loro parte. Nella vita reale sono stati infatti depredati delle loro terre e sono costretti a lavorare in condizioni pietose per i fazendeiro. Quando decidono di accamparsi ai limiti delle terre dei loro padroni, si instaura un difficile rapporto di convivenza. Inoltre alcuni giovani, non sopportando questa vita di sacrifici, decidono di farla finita. E' proprio l'ennesimo suicidio che accende la miccia della rappresaglia. I bianchi e i rossi cedono alle leggi della guerra e tornano a sfidarsi, mentre i loro figli avrebbero anche potuto amarsi e deporre le armi...
Presentato in concorso a Venezia, il lavoro di Bechis documenta in maniera fredda e diretta un'altro campo di battaglia dove l'intolleranza e le dure regole della sopraffazione hanno la meglio sullo scambio culturale e sulla conoscenza. Condizionato da una lentezza di fondo e dall'esasperazione di alcuni toni benchè siano comunque assenti scene di violenza diretta ci ha portato alla mente un vecchio capolavoro di John Boorman ("La foresta di smeraldo", 1985) realizzato nella foresta amazzonica dove la separazione fra indigeni e civilizzati si risolveva in una rasserenante mediazione, che qui purtroppo non si riscontra. E' un lavoro problematico dal punto di vista dei contenuti perchè è vasta la materia della questione sociale che affronta. Claudio Santamaria e Chiara Caselli sono praticamente gli unici attori professionisti dove le voci, i gesti e i movimenti sono in gran parte interpretati da autentici indios con una straordinaria verosimiglianza. Un film che probabilmente va rivisto ed apprezzato a distanza, un pò fuori dalle corde tradizionali di Bechis, comunque affascinante per il modo e la cura con cui è stato girato.
Cinema Il Piccolo, Santo Spirito - 18 Settembre 2008
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