Se uno dei meriti principali della commedia all'italiana del passato era quello di prendersi gioco con amarezza dei difetti caratteriali del prototipo esemplare dell'italiano medio, "Il padre di famiglia" (uno dei film meno popolari fra quelli diretti da Nanni Loy) affonda il coltello nella piaga perchè individua nella cattolica istituzione matrimoniale il luogo dove gli ideali si sacrificano e svaniscono. Una tomba intellettuale, non c'è altro da aggiungere. Era già capitato nel capolavoro di Risi "Una vita difficile" dove il protagonista cambiava bandiera nell'Italia del boom, piegandosi al benessere e svendendo le proprie ideologie. Accade anche in questo film dove Marco (Nino Manfredi) e Paola (Leslie Caron), architetti urbanisti di belle speranze, si incontrano a Roma in un corteo antimonarchico il giorno della vittoria della repubblica (giugno '46). Si amano, decidono di convolare a nozze ma anche di non rinnegare i propri ideali a sostegno del rispetto urbanistico della città. Facile a dirsi, perchè poi arrivano i figli: quattro, uno dopo l'altro, a stravolgere un equilibrio di per sè precario perchè stretto dalle tensioni dei conti in rosso e delle spese da affrontare. La vita per Marco cambia radicalmente perchè il ruolo di padre di famiglia lo costringe a mettere da parte la sua battaglia ecologica per inseguire la logica del profitto. E il problema di dare ai figli un'educazione moderna impone delle scelte non proprio vicine ai canoni tradizionali delle famiglie italiane. L'equilibrio sentimentale fra i due si altera: lui si illuderà di trovare sfogo in una relazione extraconiugale, lei presa intensamente dagli obblighi di madre cadrà in un forte stato di depressione. Quando si accorgerà che una casa senza una donna si ritrova priva dei rumori della vita quotidiana, Marco farà un passo indietro tornando prontamente in cabina di comando.
"Il padre di famiglia" fu presentato al XXVIII Festival di Venezia e regalò molte soddisfazioni al bravissimo Nino Manfredi, qui a suo agio in un ruolo di grande amarezza dove le sue capacità recitative vennero plasmate in maniera formidabile dall'ottima conduzione di Loy e da una sceneggiatura meravigliosa (c'è la mano di Ruggero Maccari). Storicamente viene anche ricordato per essere stata l'ultima interpretazione virtuale di Totò che morì dopo pochi giorni di riprese, costringendo i produttori ad affidare il ruolo del vicino di casa anarchico e compagnone al grande Ugo Tognazzi. E' un film ispiratissimo che punta molto sui dialoghi brillanti, sull'affiatamento del cast, su un lavoro di scrittura in stato di grazia. Loy riesce a raccontare un ventennio di cambiamenti (dal '46 al '66) ma soprattutto le contraddizioni della famiglia italiana di quegli anni. E' uno dei pochi film in cui l'istituzione matrimoniale è scandagliata da cima a fondo con inquietante realismo. Si ride il più delle volte per non piangere. Rivivivono le stesse situazioni che ritroveremo qualche anno dopo in "C'eravamo tanto amati" di Scola.
RAI SAT CINEMA, 25 Settembre 2008 |