Film anomalo ed irritante, "Sbirri" tradisce le sue coraggiose premesse di partenza con una resa tecnica incompatibile con gli standard d'un prodotto destinato alla sala cinematografica. La prova di coraggio da parte del suo autore, male accompagnato da una disgrazia tecnica pari solo alla sua improduttiva ambizione, è quella di voler rappresentare la dura realtà dei nuclei operativi in prima linea, a stretto contatto con la criminalità metropolitana, seguendo un metodo all'avanguardia. Una sorta di cinema verità che definire "neorealista" suona come una bestemmia perchè scomoda l'arte perduta dei nostri vecchi maestri di cinema. C'è anche da dire che la televisione ci propina quotidianamente reportage e servizi d'assalto che mostrano la dura realtà senza alterazioni di comodo. Dalle beffarde notizie di "Striscia" alle inquietanti inchieste delle "Iene", passando per la stagione infelice dell'invasione dei reality. Un mondo parallelo che vive a stretto contatto con quelle piaghe sociali sui quali i notiziari stendono spesso il velo della censura. "Sbirri" mescola in maniera alquanto surreale delle autentiche operazioni di polizia (per le quali Bova si è camuffato infiltrandosi in un nucleo speciale, partecipando in prima persona a retate, arresti ed interrogatori) con una storiella di finzione che ha il compito di raccordare il tutto. Matteo Gatti (Raoul Bova), giornalista televisivo estremista e temerario felicemente sposato, che si appresta a diventare padre per la seconda volta, è un accanito sostenitore della realtà riprodotta attraverso le telecamere. Quando il suo primogenito adolescente muore a Milano per aver assunto una dose letale di droga pesante, Matteo decide di dare una svolta professionale e personale alla sua vita. Propone al suo capo di organizzare un'inchiesta nel nucleo speciale dell'antidroga milanese, per poter riprendere in prima persona le fasi salienti delle operazioni di polizia. Il suo viaggio allucinante nei bassifondi della malavita della grande città metterà a nudo, attraverso una frenetica documentazione, il rapporto sempre più frequente fra i giovani e la tossicodipendenza. Ma tutto questo costringerà il povero Matteo a sacrificare ad un prezzo altissimo le briciole del suo precario equilibrio famigliare. Perchè "la neve" non è più un problema meterologico, ma un problema sociale. La metafora, fateci caso, è sottile ma fatalmente scritta a macchina.
Il film è inconcludente e noioso su entrambi i fronti: sia per quanto riguarda lo stile asciutto del reportage con camera a mano che diventa insostenibile data l'eccessiva durata delle riprese, sia per l'abbozzato dramma familiare di raccordo. Un campionario assurdo e osceno di scene madri e dialoghi allo sbaraglio, indegne di una soap opera sudamericana. Spiace per il volenteroso Raoul Bova caduto, anche in veste di produttore, nella rete di una operazione che si presumeva avveniristica, ma che è seriamente inconciliabile con il ritmo tradizionale del grande schermo. Comunque, va ammesso, assurdo anche per una somministrazione ridimensionata. Più che un film, un interminabile "trip" che confonde il linguaggio innovativo con l'iniziativa aberrante di un autore (incapace di volare alto), sotto effetto di allucinogeni.
Cinema Impero, Trani - 12 Aprile 2009 |