Fotoromanzo popolare che, in assenza della spensieratezza da notti prima e dopo gli esami, si cala addosso l’oscuro mantello del “noir”, un genere particolare che però in Italia non gode di molta fiducia da parte dei produttori e, di conseguenza, si vede raramente. Il tutto avviene guarda caso con la più classica delle emigrazioni artistiche: lo sceneggiatore che passa in cabina di regia e assume il comando delle operazioni. E’ frequente in coloro che scrivono per il cinema una sensazione di inappagamento nel momento in cui i loro racconti vengono consegnate ai registi autorizzati. La fase creativa di un progetto è sublime, ma la realizzazione (come in questo caso) fa venir fuori limiti e delusioni; in tempo di bilanci vengono a galla parecchi rimpianti. Chissà se Marco Martani, sceneggiatore di belle speranze che ha sulla coscienza recenti prodotti giovanili (e si è rotto le ossa scrivendo cinepanettoni), ha avvertito il peso di questo fondamentale cambio di ruoli. Fatto sta che nel passaggio da un genere all’altro, ovverosia dalla commedia al thriller, il senso di disorientamento è così forte da rasentare il caos totale. Perché le idee in “Cemento armato” non mancano, l’impianto narrativo per quanto ingarbugliato e viziato da improbabili trovate da “fiction” non ha nulla da invidiare ad uno script tarantiniano e lo sguardo pessimista rivolto alle realtà periferiche dove il cemento toglie il respiro è edulcorato se paragonato a quello che accade veramente. Però tutto è dannatamente televisivo (le emozioni dosate ad effetto), programmato per un pubblico particolare che nel bene o nel male al cinema ci andrà lo stesso (Vaporidis e Crescentini sono determinanti per il target), mancano inoltre le basi perché venga onorata la parola “recitazione”. Ed è un grande limite, insormontabile, perché con il thriller non si scherza e quando scattano i paragoni sono dolori.
Siamo a Roma, pare nel quartiere della Garbatella; la giungla d’asfalto fa da scenario alla vita difficile di una giovane coppia di fidanzatini, Diego (Vaporidis) e Asia (Crescentini), mortificati dalle insidie del costo della vita e costretti a vivere di espedienti o di lavori a breve termine. Il primo però non è ancora un uomo di casa e ha dei precedenti per atti vandalici per essersi divertito a tirare calcioni agli specchietti retrovisori. Quando ci riprova, perché innervosito da un traffico bestiale, becca la macchina sbagliata e distrugge lo specchietto della ammiraglia nuova di zecca del “Primario” (Faletti), il superboss del quartiere, tanto feroce quanto pacato e determinato nel lasciarsi cadaveri alle spalle. E’ la dichiarazione di guerra, l’inizio di un conflitto privato che il delinquente affronta con tutta la sua forza per ristabilire l’ordine e il rispetto e punire il trasgressore. Passando attraverso uno stupro, il coinvolgimento di un ispettore di polizia corrotto e una vecchia ferita non ancora rimarginata che ricorda la resa dei conti con la quale si chiudeva il cerchio (non proprio rotondo) dei mitici spaghetti-western. Specchietto o no, probabilmente i due duellanti avevano un appuntamento stabilito dal destino…
Il difetto principale di “Cemento armato” sta nel voler essere un romanzo oltre che un lungometraggio; le ragioni commerciali hanno infatti previsto che questa vicenda riempisse le sale ma anche le librerie dove al prezzo di due ingressi potrete sfogliare l’omonimo racconto scritto da Martani con Sandrone Dazieri (ed.Mondadori). Poi verranno i cappellini e i portapenne, o i fumetti forse. E’ uno dei rari casi di omologazione multimediale per i gusti di chi guarda o di chi legge. Ne fa le spese il racconto in sé che resta quello di una vendetta privata incrociata in cui si cerca di volgere uno sguardo impietoso a quella violenza domestica di cui parlano i telegiornali ogni giorno che rischia di spazzare via il principio della convivenza e della civiltà. E poi dialoghi così banali e raccapriccianti che farebbero venir voglia di un po’ di intermezzi pubblicitari (qui Martani ha toppato sul serio). Gli attori fanno quello che possono, ma il vero sforzo da parte nostra è vederli recitare: a parte la coppia dei fidanzatini di Peynet all’amatriciana, c’è un Giorgio Faletti che non sa ancora cosa vuol far da grande. La volontà sovrasta la mancanza di talento, ma è ancora forte in noi il ricordo dei suoi personaggi al “Drive in“, quindi in realtà è un opinione condizionata dal rimpianto. Folgorante come sempre Ninetto Davoli, nei panni di un paterno e nostalgico robivecchi, in grado di suggerire le poche plausibili emozioni, in cui si ritrova il respiro affannoso di una Roma che non c’è più.
Cinema Impero, Trani - Ottobre 2007 (Barisera) |