Il sottile fascino del cinema è che a volte ha curiose affinità con lo sport. Ha ad esempio al suo interno evidenti differenze di categoria: si va dal cinema di serie A a quello indipendente, si finisce con la serie Z. A volte il principio è ingiustamente regolato dalle dinamiche del budget e da forze distributive. Ottimi prodotti penalizzati da un'iniqua diffusione e invedibili obbrobri che hanno alle spalle una major che li sostiene. Vi è tuttavia un altro aspetto curioso che avvicina incredibilmente cinema e sport: il fattore sorpresa. E' sorprendente infatti come un film come questo possa approdare tranquillamente in una sala cinematografica. Sorprende allo stesso tempo la pretesa tecnica secondo la quale un film girato in un digitale improbabile può addirittura concedersi il lusso di ritrovarsi dilatato su un maxi schermo con sconvolgenti effetti che sembrano collocarne la provenienza da Youtube. Incuriositi dalle strane alchimie con il quale oggi si riescono a realizzare faticosamente prodotti a basso costo a diffusione locale (una volta si defiiniva il distributore come indipendente regionale), ci siamo recati in un Multiplex per valutare se in effetti oggi c'è ancora la possibilità concreta di potersi esprimere con la macchina da presa facendo a meno di costose impalcature. Siamo stati però prontamente sconfessati e ridimensionati. Il regista pugliese Franco Salvia, formatosi al Centro Sperimentale, che vanta una gavetta al servizio dei volponi del cinema commerciale, torna a fotografare la sua terra nel tentativo impossibile di allestire un racconto cinematografico più o meno credibile. Gli esiti sono a dir poco disastrosi e non pagano i grossi sforzi. La ridente e suggestiva città di Alberobello diventa il set naturale per una torbida, complessa e risibile vicenda che si realizza in un cocktail micidiale. La scomparsa di una signora in vista (Laura Troschel) richiama la figlia Giada (Carmen Trigiante) nel paesino natale. Come in un racconto di Sciascia l'amara terra dell'attrice protagonista diventa un luogo inquietante e inaffidabile dove l'agguato è dietro l'angolo. Tutta la macchinazione è ordita infatti da una diabolica donna in carriera (Milena Miconi) che ha deciso di mettere le mani sul gruzzolo di famiglia e che per raggiungere i suoi loschi scopi non esita a servirsi della magia nera. Ombre e nebbia in Valle d'Itria con processioni notturne, strani rituali all'interno di trulli misteriosi, cadaveri che si accumulano e telefonate minatorie con voce rauca. Sulla pista degli ignoti esecutori del complotto ai danni della povera ma piacente ragazza ci si mette pure un commissario ambiguo (Danny Quinn), per giunta doppiato. Mentre la megera escogita terribili macchinazioni i vari personaggi sono impegnatissimi nelle loro case ad accendere il caminetto con la "Diavolina" (metafora o uso smodato del product placement?). Finale a sorpresa con soluzione rapida dell'intrigo e le sirene delle volanti accese nella notte umida.
Sembra uscito dal filone nutrito dei thriller di provincia, molto in voga negli anni '70, con il quale il nostro cinema per un lungo periodo ha trainato la carretta. La verità è un'altra. A queste condizioni si ha l'impressione di non poter assolutamente usufrire di un prodotto cinematografico. Nonostante il cast stracult che ripesca vecchie glorie che ci stanno a cuore per professionalità ed esperienza (Nando Gazzolo, Nino Castelnuovo) peccando di lesa maestà, il film fallisce nel tentativo di rilanciare volti che non hanno mai frequentato il grande schermo (Milena Miconi sembra la clonazione di Nancy Brilli). L'impasto indigesto molto più adatto ad una prima serata da zapping sui canali privati concede inevitabili cadute di ritmo, favorendo il baratro con momenti di comicità involontaria procurati da un imbarazzante dilettantismo camuffato da cinema artigianale.
Cinemars, Andria - 27 Febbraio 2010 |