Melodramma moderno ambientato fra la Sicilia e il Piemonte (le Film Commission sono due e vi è una necessaria imparzialità per gli esterni) a cavallo di un trentennio di frenetici cambiamenti sociali e politici (dagli anni '50 agli anni '80), "La bella società" è l'opera seconda (a quattro anni di distanza da "Salvatore, questa è la vita") di Gian Paolo Cugno (classe 1968), regista sul quale le major sembrano riporre cieca fiducia (dopo la Disney tocca a Medusa). Chi scrive prova un profondo senso di imbarazzo nel valutare un'opera che presenta due enormi difetti sostanziali: l'handicap da clonazione (per non parlare di plagio) e una più appropriata destinazione televisiva (magari in cinque puntate per smaltire l'eccesso di carne sul fuoco). Il primo problema deriva dal fatto che il dispendio di mezzi a disposizione ha consentito al regista di migliorare l'aspetto tecnico della pellicola (ineccepibile la fotografia di Giancarlo Ferrando), trascurando scrittura e recitazione. Cugno magari potrà pure rivendicare una sua identità, ma non riesce proprio a fare a meno di riprodurre la Sicilia attraverso lo sguardo nostalgico ed epico del Tornatore di "Baarìa" e "Nuovo Cinema Paradiso". A tal punto si segnala un'abuso ingenuo di una colonna sonora funzionalissima (Paolo Vivaldi) ed utile alla causa, chiamata puntualmente a sottolineare scene madri (se ne contano su due mani) e colpi di scena ripresi tassativamente col dolly. La destinazione televisiva si evince da uno stile frammentario (il lavoro sembra falcidiato da tagli e riduzioni in sede di montaggio) e da una sceneggiatura più vicina alla soap che al lungometraggio per il grande schermo. Circostanza confermata dal reclutamento di attrici televisive, provenienti da "Vivere" e "Centovetrine". Cugno sembra aver assimilato (male) il cinema che lo ha preceduto avendo dato una rapida ripassata al "Novecento" di Bernardo Bertolucci, a "La meglio gioventù" di Marco Tullio Giordana e, perchè no, ai filmoni strappalacrime che erano il cavallo di battaglia del compianto Amedeo Nazzari.
Pachino (Enna). Due figli della terra legatissimi alla madre (Maria Grazia Cucinotta), vedova bianca di un contadino strappato via dalla mafia, cercano di proteggerla dall'eventualità di rifarsi una nuova vita sentimentale. Amore filiale e mascolino. Ma quando l'irresistibile Romano (Raul Bova), organizzatore cinematografico venuto a girare un film in Sicilia ("L'uomo delle stelle", do you remember?), offre alla donna l'illusione di debuttare sul grande schermo, la poverina cade nella trappola dei sensi, si innamora del forestiero venuto dal continente, accendendo le gelosie dei figli (che assistono impotenti al frenetico amplesso). E qui c'è il primo colpo di scena: un incidente fatale causa la perdita della vista di uno dei due fratelli e la misteriosa sparizione dell'aspirante patrigno. Anni dopo a Torino, dove i due si recano per tentare un'operazione, il loro destino si incrocia con i fermenti del brigatismo e con un tragico episodio di lotta armata. Gli sviluppi sono rapidi: alla comitiva si aggrega una dipendente della Fiat, testimone dell'attentato, che si nasconde in Sicilia per sfuggire alla ritorsione degli aguzzini cominciando ad affezionarsi al fratello miracolato (che acquista e perde la facoltà visiva come il principe De Curtis in una scena di "Totò cerca moglie"). A fare da sfondo: le lotte sindacali, la redenzione di un figlio di papà che, preso da rimorso, decide di mettersi a posto con la coscienza sposando la causa dei contadini. La tragedia è dietro l'angolo: il lieto fine pare una chimera, ma anche una soluzione improponibile data la mole di disgrazie. A parte l'inquietante mistero celato dietro un titolo ambiguo ed illusorio (che il regista ha il dovere di spiegare in separata sede), il film di Cugno potrebbe essere classificato come un affresco con colori spenti. Nel naufragio generale periscono onesti artigiani del cinema professionale, nobili decaduti per assecondare una spontanea generosità. Un convinto Enrico Lo Verso, un Giancarlo Giannini che recita guardando l'orologio, Franco Interlenghi ed Antonella Lualdi, mai così raminghi e tristi, e una Cucinotta che ripropone pari pari la sensualità preconfezionata già vista ne "la seconda moglie" di Ugo Chiti. Preso con le molle, depurato dal sovraccarico di ingenuità e rivalutato con un furbo distacco, magari potrà fornire allo spettatore momenti di comicità involontaria. Anche se diventa davvero difficile celare un forte disagio che, sembrerà strano, solo uno spot pubblicitario riuscirebbe ad alleviare.
Cinema Politeama Italia, Bisceglie - 26 Maggio 2010 |