Percorrendo la lunga strada del biopic che porta alla celebrazione, Menno Meyjes preferisce accostare alla prima osteria. Sceneggiatore olandese molto fedele a Steven Spielberg, con il quale riuscì ad ottenere la candidatura all'Oscar per lo script de "Il colore viola" (1986), Meyjes condensa infatti la breve ma intensa vita di Manuel Rodrìguez, al secolo "Manolete" (1917-1947), nell'appassionata e non proprio idilliaca relazione sentimentale, che fu l'anticamera della sua fine, con la bellissima ed orgogliosa Lupe Sino. In un "Bignami" essenziale ed asciutto di un matador cortese e triste, longilineo e sgraziato, che infuocò le arene di tutta la Spagna nell'arco di un decennio, Meyjes cerca di salvaguardare l'intensità del melodramma e l'impeccabile resa scenografica. "Manolete", priva vera biografia autorizzata dedicata all'illustre torero, ci mostra in fasi altalenanti le battaglie sui talami, con incremento di camere d'albergo, e la lotta estenuante del povero protagonista per difendere la sua amata dalle ostilità di tutti quelli che lo circondano (amici e parassiti). Il nucleo del contendere è la sproporzionata differenza caratteriale fra i due: riservato, timido e marcato da un'insopprimibile malinconia il povero torero, esuberante, vivace, indipendente e punta dall'orgoglio la bellissima amata, con un torbido passato alle spalle (che contempla una militanza antifranchista). I due si incontrano casualmente, all'apice della celebrità del torero più amato da tutto il mondo, e scatta subito la gelosia fra professione e dedizione. Il sangue e l'olezzo di morte dell'arena e il profumo di vitalità emanato dalle carezze e dalle affilate armi di seduzione utilizzate dalla bellissima Lupe (Penelope Cruz) condizionano la lucidità mentale del matador. Combattuto fra i richiami del trionfo popolare e la tranquillità di un buen ritiro, Manolete accetta con rabbia e rassegnazione tutte le sfide più impossibili. Fino a cadere in trappola il 28 agosto 1947 nel duello fatale nell'andalusa Linares con il suo giovane rivale Luis Miguel Dominguìn dove, nel vano tentativo di superarsi, Manolete sfiderà oltre il lecito la furia del toro. Morirà a soli trent'anni per la recisione di un'arteria femorale.
Tirato a lucido come si conviene ai compitini laccati destinati ai profani, già pronto da tre anni e distribuito in ritardo, "Manolete" svela in chiaro tutta l'indigesta approssimazione di stampo televisivo. Ineccepibile dal punto di vista tecnico, grazie al prezioso contributo di due attori bravissimi (impressionante la somiglianza di Brody che salta fuori dal raffronto con i filmati di repertorio), all'atto pratico non dispiace. Il suo limite è la costante ripetitività con la quale l'autore sembra aver ridotto all'osso la biografia del suo eroe. Il filtro dell'epica lascia di buon grado alla memoria visiva dello spettatore il fascino discutibile della corrida che consegnò alla storia Manolete. Le mani intrise di sangue che liberano due bianche colombe e quella pioggia di petali rossi dai balconi per celebrare l'ultima vittima della dura legge della tauromachia. Spettacolo affascinante che colpisce nel segno, sfuggendo alla prassi comune delle biografie piatte, avvicinando il pubblico ad un notevole traguardo emozionale.
Cinema Impero, Trani - 21 Giugno 2010 |