Il robusto filo emozionale che in un modo o nell'altro ci lega tutti al cinema, addetti ai lavori e non, ciascuno con le proprie diverse priorità o con una maggiore cifra passionale rispetto allo spettatore comune, si ritrova ad affrontare oggi un periodo storico delicatissimo, con questo sentimento protetto con paura, difeso con sudore. Perchè il mondo sta cambiando, la fruizione cinematografica anche, il frastuono del mercato inibisce coloro che hanno le chiavi della fabbrica dei sogni (alla lettera: i produttori distorti da una visione pragmatica del cinema) e che hanno perso il coraggio, la voglia di mettersi in gioco e di rischiare, mettendo al bando il valore dei racconti semplici, delle piccole cose, come se non dovessero più appartenere più alla nostra epoca. Un vero peccato, perchè è una sorta di preventiva censura intellettuale che il pubblico italiano non merita affatto. Perchè se la cultura è il motore di un paese, la tradizione storica ne è il carburante necessario. Siamo e restiamo un popolo che non ha perso, almeno al cinema, la voglia di ridere ma che dovrebbe ogni tanto voltarsi indietro e recuperare la dignità del nostro passato, gli insegnamenti della storia, del vivere civile. E' un modo necessario per sottrarsi all'imbarbarimento, al pupullare di pellicole brutte che non lasciano traccia se non nell'effimero ma fondamentale guinness della scalata agli ascolti che ci priva di segni impressi nella memoria. Che ben vengano allora queste piacevoli sorprese, magari ispirate da una sana ed ingenua passione che di questi tempi viene ormai interpretata come folle avventatezza. "Un giorno della vita" è un opera prima firmata da un regista di origine calabrese, Giuseppe Papasso, che, attenzione, non è un giovanissimo esordiente. Un passato di documentarista e saggista, parecchia ginnastica come regista di spot pubblicitari, passato oggi al grande schermo con un lungometraggio, realizzato con un entusiasmo inversamente proporzionale al budget a disposizione, dove si torna a raccontare un'Italia che non c'è più. Siamo nell'estate del 1964 in un paesino della Lucania. Salvatore (Matteo Basso), di famiglia proletaria, è un ragazzino che quando può ruba i risparmi di casa per consumare sogni ed emozioni nella saletta cinematografica del paesino vicino. E' una stagione di fondamentali cambiamenti storici: i primi topless, il Concilio Vaticano II e l'istituzione delle sale parrocchiali, il fermento nelle sezioni del Pci per l'aggravarsi delle condizioni di Palmiro Togliatti. Quando, per inseguire il suo sogno (acquistare un proiettore 16mm d'occasione per realizzare un cinemino in cantina), il ragazzo compie un misfatto ai danni della cassa comune del partito, si aprono le porte del riformatorio. Ma Salvatore con il suo gesto rivoluzionario riesce a dimostrare che il cinema può essere un modo straordinario per svegliare le coscienze dei paesani e raccontare attraverso le immagini i cambiamenti del paese. Con l'aiuto di un giornalista (Alessandro Haber) che ha preso a cuore il suo caso, riuscirà a dimostrare le sue ragioni, l'effettiva innocenza del suo clamoroso gesto. E magari riuscirà anche a riprendersi l'affetto di un padre burbero e dispotico, chiuso nella trappola della grettezza, attraverso la magia delle luci spente in sala..
L'opera prima di Giuseppe Papasso si rivela gradevole, girata con garbo e generosità, rafforzata dal sostegno essenziale di una favola sul cinema, ispirata da sentimenti buoni ed autentici. La vita provinciale, il cinema come illusione e i "topoi" del paesino meridionale (primeggia su tutti un parroco istintivo e conservatore, tratteggiato con grande mestiere da un beffardo Ernesto Mahieux) hanno purtroppo modelli di riferimento ben definiti nell'immaginario collettivo, ma esibirsi in citazioni pare uno sforzo inutile. Papasso riesce a ritagliarsi una sua autonomia, evitando le accomodanti convenzioni da fiction, suscitando sorrisi spontanei e lacrime sincere. Una "piccola storia di grandi passioni", come l'ha definita il regista che rimanda per certi aspetti ai "400 colpi" di Truffaut (ecco un modello onestamente dichiarato) ma anche alla bellezza di alcuni lavori di Luigi Comencini. Una pellicola con molta voglia di raccontare, di scaldare il cuore dello spettatore in grado di percepire e difendere un film di contenuti che non ha sperperato mezzi a parte energie personali. Un meridione lontano, ma non troppo, fotografato dalla luce calda di Ugo Menegatti, dove Maria Grazia Cucinotta torna con semplicità e credibile verosimiglianza a rivestire i panni di accorta, saggia e sofferta madre-chioccia di un Sud riunito a tavola senza il frastuono del televisore acceso. Si rivedono con piacere pellicole d'epoca (memorabile il viaggio in nave di Charlot), inserti provenienti dai Maciste di cartapesta, lo storico bagno nella fontana di Marcello Mastroianni che contempla la Ekberg ("La dolce vita" in terza visione). Si rubano emozioni, ci si identifica inevitabilmente in qualche personaggio. Chi può dire di non aver mai pianto (anche di gioia) almeno una volta nella vita davanti al telo bianco, accanto al proprio genitore, davanti ad un bacio o ad uno sceriffo buono colpito dalla pistola del cattivo?
Casa del Cinema, Roma - 11 Gennaio 2011 |