di Vito Santoro
La storia di una famiglia media americana degli anni Cinquanta vista come una microscopica parentesi nella Storia immensa del cosmo, dalla nascita dell’universo alla formazione della crosta terrestre; dalla comparsa dei primi microrganismi a quella dei dinosauri; via via fino alla nostra contemporaneità. Il tutto configurato come una sinfonia di immagini, colori, suoni, e soprattutto luce, dove la computer grafica resta comunque assoggettata alle riprese dal vivo.
È davvero difficile raccontare l’ultimo, adamantino lavoro di Terrence Malick, The tree of life, regista unico per la sua capacità di fondere in una filmografia breve ma straordinaria, poesia e sperimentazione, mistica e realismo, epica e intimismo, sfidando ogni convenzione narrativa. Difficile raccontare questo film perché le ordinarie vicende quotidiane degli O’Brien sono rappresentate sullo schermo in modo quanto mai frammentato e casuale, a volte ricorrendo al meccanismo proustiano delle madeleine. C’è il capofamiglia Brad Pitt, inventore fallito, spesso violento, ma anche capace di piccole tenerezze, che vede disintegrarsi davanti ai suoi il mito dell’American dream, che consente a chiunque, purché dotato, la scalata sociale e, fatto ancor più terribile, vede la sua cieca fede protestante scossa dalla morte prematura di uno dei suoi tre figli. C’è sua moglie Jessica Chastain, felice soprattutto quando il marito è assente, personificazione della grazia e della bellezza, in altre parole, dell’humanitas; e il loro primogenito Jack, interpretato da adulto da Sean Penn, i cui ricordi invadono il film.
Certo il fatto di tripartire The tree of life in una cosmogonia iniziale, un’ampia parte centrale ed un finale ritorno alla natura/rinascita (post mortem?) di Jack, non può che richiamare alla mente 2001: Odissea dello spazio, come suggerito anche dalla presenza di Douglas Trumball, come consulente agli effetti speciali (anche se, a questo proposito io richiamerei alla mente un film diretto nel 1981 proprio da Trumball, quale Brainstorm: generazione elettronica, con l’idea di “catturare” le sensazioni di chi sta per morire, che si esplicita nel finale psichedelico). Qui però emerge forte il legame di Malick con il pensiero di Heidegger, di cui, come è noto, il regista ha tradotto in angloamericano alcuni lavori.
In particolare, nel suo saggio su Anassimandro, ma poi soprattutto nel primo capitolo della Einführung in die Metaphysik del 1935, il filosofo tedesco aveva osservato che la parola physis non designa la natura, come vuole la traduzione latina (la quale costituisce «il primo passo del processo di imprigionamento e di alienazione dell’originaria essenza della filosofia greca»), ma «ciò che si schiude da se stesso»: in altre parole è «l’aprentesi dispiegarsi e in tale dispiegamento l’entrare nell’apparire e il rimanere e il mantenersi in esso; in breve: lo schiudentesi-permanente imporsi».
E proprio questo continuo movimento, questo «aprentesi dispiegarsi» è alla base di The tree of life e dell’idea di cinema di Malick. Un cinema fatto di gesti insignificanti, smaller than life, come una passeggiata in un bosco, un gioco in giardino, una mano poggiata sulla spalla, dai quali si dischiude physis, in quella che è una memorabile elegia cinematografica di una umanità in perenne concordia-discors con la natura.
Cinema Galleria, Bari - 21 Maggio 2011 |