Infiammato dalla sola attrazione fisica e dall'ardore della lussuria, l'amore non sempre ce la fa a sopravvivere. L'amore consumato in tutte le sue forme, con fretta e paura, con ingordigia e passione come se si ritrovasse sempre ad essere sul burrone della fine, preannuncia la sua stessa caduta. Magari fra moccoli di cera ardente ("Body of evidence") o punteruoli di ghiaccio che annientano l'imminente orgasmo ("Basic instinct"). Inutile sdegnarsi per poi appellarsi all'alibi dello scandalo: oltre l'acquolina del noleggio c'è forse la voglia di affrontare concretamente questioni serie, ridotte spesso ad espedienti furbetti. Pellicole come "Basic instinct" e "Body of evidence" hanno soltanto sussurrato questo aspetto, senza approfondirlo e soprattutto senza adeguarlo ai mali del presente. Pur argomentando temi che al cinema funzionano sempre, questi film si solo rivelati alla fin fine falsi, incompleti, fin troppo legati alle lusinghe del botteghino e non certo ai risvolti psicologici derivanti dall'effettivo malessere delle loro trame.
Con un Roman Polanski in piena forma è tutt'altra cosa; innanzitutto perchè è un cineasta che è sempre riuscito a garantire un fascino innegabile al suo operato e poi perchè è un regista che avendo agglomerato culture diverse (oltre alle risapute esperienze personali) riesce quasi sempre a personalizzare tematiche che in altri autori risultano ovvie e scontate. Non c'è una sua pellicola che non abbia scatenato animate discussioni. "Luna di fiele" è pertanto il suo coltello affilato nella piaga della questione dell'"innamoramento carnale", un lungometraggio che coglie nel vero senso della parola l'aspetto viscerale ed istintivo della seduzione e dell'attrazione fra i corpi. Se vogliamo è un'ennesima dimostrazione della competenza europea che va a completare il discorso anticipato in "Damage", l'ultimo film di Louis Malle. Polanski, da sempre abituato ad essere scarrozzato sulla giostra dello scandalo, stavolta cerca di recuperare punti in purezza. L'autore ha voluto stavolta colpire la curiosità degli spettatori con l'originalità di un trailer con l'impiego di una scena chiave del film. La donna minacciosa col rasoio sintetizza la potenza del suo cinema di far breccia con un unico taglio.
Tratto da un vecchio romanzo di Pascal Bruckner (edizioni Anabasi, 1981), il film è una sorta di parabola amara sui mali degli eccessi delle passioni d'amore. Su un "topos" ormai classico per il cinema degli incontri fatali e dei racconti (una nave da crociera che viaggia verso Istanbul), il destino di una coppia di amanti enigmatici coinvolge quello un pò più roseo (ma in definitiva forse più contaminato) di una coppia di sposi in crisi. Nigel (Hugh Grant) e Fiona (Kristin Scott-Thomas), si illudono d'amarsi ancora ma l'attrazione è svanita e nessuno dei due ha intenzione di ammetterlo: la crociera dovrebbe ricucire una ferita dolente, risanare un rapporto represso da timori e incertezze. Il diavolo bussa alla loro porta sottoforma di una femmina fatale che per un uomo in crisi è come un biglietto di sola andata per il paradiso. La ragazza, Mimì (una splendida Emmanuelle Seigner), è bella ma infelice, sprigiona una vitalità mista ad una ambiguità, tipica di chi nasconde un passato torbido lasciando intuire alla povera preda che c'è un posto libero in cabina. Incuriosito dalla donna, Nigel prima di averla deve fare i conti con Caronte: il marito della donna, uno scrittore fallito di origine americana, immobilizzato su una sedia a rotelle. "Se la desideri, lascia che ti narri prima la nostra storia".
Privo di effetti psicologici programmati per erezioni meccaniche dei destinatari, l'eros di Polanski recupera la sua carnalità genuina, quasi infantile, che si sdrammatizza fra l'ironico e il grottesco. Ci sono, come sempre, particolarità antologiche (Mimì che si rovescia il latte sul seno, lo stupro "psicologico") che entreranno prepotentemente nella memoria, ma si va ben oltre. Polanski denuncia a suo modo il trapasso dall'amore irrefrenabile all'odio istintivo, quasi animalesco, che nasce con lo svanire dell'eccitazione. "Abbiamo esagerato!" dirà in un momento di sconforto l'amante perverso che ha ben compreso l'entità del peccato. Il film mette in crisi un confronto rigido fra coppie in crisi di astinenza e quelle logorate dalla malattia del sesso. Ed è, fuori dai canoni (rispettati) dell'erotismo d'autore, un film volutamente ricco di sfumature comiche che sottolineano le colorite perversioni in chiave di gags. Lo scrittore squattrinato, ovvero il folle amante, è il bravissimo attore americano Peter Coyote ("E.T."), abilissimo nel conferire al suo personaggio lo sgomento di un amore in costante equilibrio sulla corda tesa della morte. Emanuelle Seigner, moglie nella vita del regista, nonchè madre felice ha un fascino diverso da quello delle top models strette e slanciate. Gioca molto con la sinuosità del suo corpo opulento (e materno) in giusta contraddizione con l'aggressività dei suoi lineamenti marcati. Hugh Grant, proveniente dal bel cinema di Ivory, ha la spaesatezza e l'ingenuità della preda. Kristin Scott-Thomas è l'altro lato del pianeta donna. Una rosa da sfogliare, che nasconde nei suoi petali un profumo più intenso, un ardore più consistente rispetto alla sua esplicita rivale. Bellissimi temi musicali di Vangelis, fotografia impeccabile del nostro Tonino Delli Colli. Tutto in perfetto stile Polanski, secondo il quale ogni rapporto tra uomo e donna, anche se armonioso, nasconde dietro di se' il seme della farsa e della tragedia. Una visione come un viaggio movimentato: carezze e schiaffi all'occorrenza.
Supercinema, Trani - 5 Febbraio 1993 |