Il pescivendolo Luciano Ciotola (Aniello Arena) vive a Napoli in un vecchio stabile accerchiato da un vero e proprio clan familiare: figli, zie, nipoti e cognati sparsi per casa. Poca vita, non proprio da ruota panoramica. Soddisfazioni a buon mercato, piccole rispetto agli spazi sterminati di alienanti centri commerciali che azzerano la mente. Ed ecco che il matrimonio di un amico diventa un evento fiabesco: una carrozza con cocchieri in livrea usciti da "Cenerentola" fa il suo ingresso trionfale in una sala ricevimenti inaugurando un surreale banchetto. Ecco, la possibilità di riuscire a fare le cose in grande rappresenta un traguardo. L'inaccessibile mondo dell'apparenza, che prima o poi si aprirà con una chiave speciale, quella della forza di volontà. E il confronto con un eroe venuto dalla fama televisiva, guest star del rinfresco nuziale, tradisce la complicità di classe sociale. Un buon esempio, insomma, per uscire dalla tana, sfondare e prendere a morsi la celebrità. Dall'esterno Luciano si accorge presto che quella creatura "televisiva" è solo un buffone che recita una parte pensando solo a farsi i soldi. Ma non incassa il colpo, anzi ne subisce fatalmente il fascino. Gli introiti della pescheria non bastano per tirare avanti e Luciano arrotonda come può con un traffico non proprio pulito di elettrodomestici. Ha da sempre la vocazione per lo spettacolo e quando i suoi bimbi insistono per farlo partecipare alle selezioni de "Il grande fratello" per il povero Luciano si apre una finestra sull'unica possibilità della sua vita che lo inghiotterà irrimediabilmente fino a farlo impazzire. Convinto d'essere entrato già in gara nella sua esistenza quotidiana, Luciano cerca di compiacere l'occhio delle telecamere (che, naturalmente, non ci sono), diventando quello che non è, trasformandosi in quello che non è mai stato, assecondando una virtualità che non si manifesta, attraverso gesti interpretati come forma di squilibrio. La vita immaginaria sovvertirà quella reale. Ossessionato dalla voglia di apparire e di non essere da meno ai tristi attori di uno spettacolino desolante sparato su tutti i canali, cercherà di sfondare, finirà in mano agli psicologi, si rifugerà in un centro di recupero. Appena in tempo, poi, per ritrovarsi per poco o per caso protagonista marginale della fiaba che ha sempre sognato.
Era indubbiamente un film importante e di fatto non tradisce le attese, questo "Reality" di Matteo Garrone. Un lavoro che ha bissato lo scorso maggio il prestigioso premio della giuria a Cannes attorno al quale, di riflesso, si è concentrata una curiosità lunga quattro mesi. Bisogna riconoscere a Garrone il merito di aver tenuto sotto controllo tutto l'impianto tecnico. "Reality" è una macchina cinematografica in grande stile dove gli ingranaggi (dalla fotografia del compianto Marco Onorato, scomparso alla fine delle riprese alle musiche di Alexandre Desplat che utilizzano i temi al carillon cari al genere fantasy) funzionano a dovere. Con un attore per caso, Aniella Arena (ergastolano che ha imparato a recitare in carcere e sogna di proseguire la carriera) in grado di destreggiarsi fra le centomila maschere pirandelliane e numeri di scuola eduardiana (un Luca Cupiello del nuovo secolo che cade nella rete di un grande inganno, per il bene della sua famiglia). Film complesso ma allo stesso tempo fruibilissimo; tragedia camuffata da commedia dove le forzature del grottesco tamponano le falle d'una generazione che ha perso ineluttabilmente le gioie del vivere nella semplicità che le è sempre appartenuta. E pur essendo a suo modo un'appendice gomorriana (ma solo per alcune affinità di stile), vi è piena dimostrazione che una storia di normale imbarbarimento come questa si sarebbe potuta girare in qualsiasi parte di Italia. La macchina da presa (frequentemente a mano) danza regalandoci momenti memorabili: da un'apertura epica, ad una chiusura amarissima, passando per un'infernale esibizione orgiastica in una discoteca, terra di nessuno. Svolazza lo spirito beffardo di Fellini che certe cose le aveva già predette trent'anni fa quando il seme marcio della televisione si stava innestando. Ma il dolore nel vedere i viali di Cinecittà ormai vuoti, invasi da una venefica matrigna, a causa dei sogni svaniti, lascia un magone misto a disagio. Se è vero che siamo ormai costretti a raccontare storie specchiando il nostro grigiore, è perchè questo paese non ha più nulla di dire e si è dovuto immolare ad una subumanità che ha vinto la battaglia.
Cinema Alfieri, Corato - 1 Ottobre 2012 |