Croce e delizia dei critici più diffidenti e meno motivati, il discusso talento di Andrew Dominik, filmaker di origini neozelandesi, ha avuto, per così dire, pochissime occasioni per esprimersi o venire a galla. Come fiammiferi bruciati in fretta questi tre film girati nell'arco di dodici anni, fra cui un riadattamento della leggenda di Jesse James passato inosservato cinque anni fa a Venezia, hanno messo in luce uno stile originale dal punto di vista visivo ma con troppi, troppi limiti di impostazione. Anche questo "Cogan", ispirato ad un romanzo di George H.Higgins uscito quasi quarant'anni fa e spostato da Dominik curiosamente nella Louisiana della prima crisi economica alla vigilia delle presidenziali vinte da Obama, pur non tradendo l'anima portante del testo, infarcito da più da dialoghi che da situazioni, viaggia a doppio regime fra brusche accellerazioni e frenate azzardate.
In tempi di crisi il denaro contante gira solo nelle bische clandestine: Markie Trattman (Ray Liotta) organizza partite di poker, facendosi rapinare occasionalmente da criminali con cui è in combutta, per sottrarre il bottino alla mafia. Quando la sua pessima reputazione viene sfruttata da due balordi che organizzano un'altra rapina per conto di un insospettabile per far ricadere la colpa su di lui, Trattman finisce nuovamente e, stavolta, davvero innocentemente nel mirino di Dillon (Sam Shepard), gangster vendicativo. Sulle sue tracce ci si mette il perfido e serafico Jackie Cogan (Brad Pitt), abituato a risolvere i problemi più duri per conto terzi e, all'occorrenza, a rimboccarsi le maniche e a premere il grilletto. Inevitabilmente la rapina ha un assurdo effetto domino su responsabili diretti ed indiretti: i sicari vanno e vengono per compiere il lavoro sporco e ripristinare gli equilibri utili a far ritornare la calma nell'ambiente e nel business.
Pur non consegnando il suo terzo film alla storia del cinema, nonostante fosse in concorso a Cannes, e nemmeno impegnandosi a stringere debiti con la memoria, "Cogan" è un noir più di forma e di sostanza nel quale vanno ascritte fra le tonalità alte una lunga, bellissima sequenza di omicidio al ralenty, commentata dalla bellissima "Love letters" di Ketty Lester. Andrew Dominik si impegna ad alternare in modo piuttosto prevedibile i due estremi del mondo criminale: colletti bianchi insospettabili che parlottano in macchina e turpi e violenti manovali che si occupano del lavoro sporco. Le lunghe sequenze in macchina, che siano in movimento o ferme e imboscate sotto i ponti, testimoniano l'esigenza da parte dell'autore di rinunciare volentieri all'azione, per condurre un'introspezione che di fatto non approda a nulla. La bandiera a stelle e striscie sventola accarezzando la solitudine di esistenze in crisi (non solo economica) in un periodo in cui di fatto è avvenuto un cambiamento apparentemente illusorio. Quello che convince meno è l'accostamento, puntualmente inutile, con il cinema pulp tarantiniano, di cui francamente non vi è traccia. Non per prendere le distanze e nemmeno per nutrire un certo snobismo che, forse inconsciamente, si cela in certa sterile pretenziosità di Dominik, forse si cade nella rete per un cast davvero interessante dominato dalle interminabili confessioni di James Gandolfini, killer sedentario, logorroico e gaudente, al cospetto di un impassibile ma divertito (e divertente) Brad Pitt. Sequenze collaudate che senza alcuna pietà annegano lo spettatore in una verbosità che non ammette mezze misure: prendere o lasciare.
Cinema Impero, Trani - 20 Ottobre 2012 (Barisera)
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