Sfilano cappelli e cappotti, acconciature che rimandano a certe situazioni del passato, la luce calda illumina una cena a due dove un figlio tocca argomenti delicati causando l'imbarazzo della madre, la macchina da presa si raggomitola nel vano scala di un palazzo signorile romano, il dolly passeggia fra interni e esterni osservando il corridoio di una scuola o una strada vuota che comincia ad animarsi alle prime luci dell'alba. Signore e signori, Bernardo Bertolucci è tornato. A fatica, con straordinaria forza di volontà e una dolcezza che dovrebbe aiutarci a sopravvivere, realizza a cinquant'anni esatti dal suo primo film ("La commare secca", girato a soli 21 anni) un dramma da camera, un film che racchiude in uno scantinato buio due mondi in conflitto, rispettando con fedeltà estrema (a parte un finale diverso, meno disperato) il romanzo omonimo scritto da Niccolò Ammaniti qualche anno fa. Un autore che rivive una seconda giovinezza e, perchè no, apre una nuova fase della sua carriera raccontando con eleganza e sentimento l'esistenza inquieta di Lorenzo (Jacopo Olmo Antinori), quattordicenne di buona famiglia, che nonostante il suo status vive una battaglia conflittuale con i suoi coetanei. Il ragazzo indossa le cuffiette e si isola, non parla con nessuno, fa strani discorsi con la madre, patisce l'assenza del padre e si appassiona alla vita metodica degli animali da teca: formiche, camaleonti, armadilli. Pur di far contenta mamma, che lo ha affidato alle cure di uno psicologo, finge di partire con i suoi compagni per una settimana bianca. E invece ha già programmato il suo piano di fuga: sette giorni di isolamento in uno scantinato del suo condominio, da trascorrere fra letture, musica all'auricolare e tante schifezze in scatola. Il piano sembra funzionare, fino a quando non irrompe misteriosamente la sorellastra Olivia (Tea Falco), che suo padre ha avuto da una precedente relazione con una moglie siciliana, alla disperata ricerca di aiuto. Olivia è tossicodipendente, bella e volitiva ma con l'anima maledetta della ragazza perduta. Inevitabilmente le due solitudini finiranno per confrontarsi, reclamare un aiuto disperato, motivando un reciproco sostegno. Dal disagio nasce un legame, una forte complicità che il tempo e le situazioni avevano raffreddato.
Sovrastati da immagini splendide, da suggestioni che pressuppongono l'appartenenza ad un mondo (quello di Bernardo, ovviamente) e dalla consapevolezza che questo modo di "cinematografare" non ha ad oggi ulteriori degni esponenti capaci di stringere così con forza la macchina da presa, ci si lascia avvolgere da un Bertolucci in stato di grazia, che avanza con una discrezione in linea con la sua opera minore, in libertà assoluta spandendo citazioni, riferimenti, voltandosi indietro ma tenendo ben a fuoco il dramma intimista che il suo mirino inquadra. La stanza buia è un rifugio, ma anche un non luogo, se vogliamo, dove si manifesta la "tragedia del bisogno". Due giovani esuli scappano dalla realtà, chi nascondendosi e chi martoriandosi il corpo con la droga pesante. La sensibilità di Bertolucci parte da questa frattura, per aprire una speranza, per sfuggire insomma all'agonia dei traumi generati dalla solitudine. Nella sua ricerca formale che non lascia nulla al caso, dalla sua "sedia elettrica" Bernardo anche stavolta ci manda carezze dal lenzuolo bianco. Lo fa attraverso le buone luci di Fabio Ciachetti, gli archi diretti da Franco Piersanti e un repertorio musicale pop che spazia dai Cure a David Bowie. Già consegnata alla storia la danza ammaliante della sorellastra (esordio impegnativo per la brava Tea Falco) che intona "Ragazzo solo, ragazza sola" per stringersi in un abbraccio d'amore, attorno al fratellastro divenuto fratello. Tornano le lezioni di cinema, insomma e la sala ritorna ad essere per un attimo quello che è stata per anni: un luogo di emozioni. Un posto dove "La luna", che rivolge un sorriso a Giuseppe (al quale il film è dedicato), riesce finalmente a far luce sul buio.
Cinema Opera, Barletta - 28 Ottobre 2012 |