Nell'oltretomba immaginato da Sergio Rubini, dove si arriva a bordo di un taxi guidato da un Enzo Iacchetti-Caronte, l'uguaglianza delle anime in transito, provviste di regolare accappatoio e di ciabatte di spugna come in una beauty farm di lusso, è tutelata da Carlo Marx. Il titolare dalla barba bianca che disattende la clemenza divina, applica, dati alla mano, uno scrupoloso studio delle carte. Va in crisi, pertanto, quando alle porte dell'aldilà bussa l'anima in pena di Biagio Bianchetti (Pasquale Petrolo) che si annoda al collo un masso e cade nel lago per combinazione fatale. Biagio è un imprenditore sommerso dai debiti con complessi di inferiorità nei confronti di Ottone Di Valerio (Neri Marcorè), ex-compagno di scuola, concorrente di successo che gli fa ombra e sleale concorrenza da una vita. E' un suicidio regolarmente consumato o senza questo terribile incidente, Bianchetti avrebbe potuto ripensarci? A Marx e alla sua equipe non resta che giocare la carta della reincarnazione. Bianchetti potrà beneficiare di un bonus settimanale di vita terrena, provando a mettere ordine o a complicarsi di più l'esistenza. Per sfida accetta di tornare nel corpo di Dennis Ruffino (Emilio Solfrizzi), manager rampante e new-age dalle cui labbra pende proprio il determinato ed esuberante Ottone, per tallonarlo e gustarsi una lenta vendetta, mandandolo alla deriva. Porte aperte alla farsa. Il destino, infatti, continua a farsi beffa del Bianchetti: nonostante il suo ruolo di spina nel fianco, il successo di Ottone sembra essere sempre più inarrestabile. Ma il nemico storico ha molti scheletri dell'armadio e sotto le mentite spoglie di Ruffino, il futuro trapassato pianifica invano una strategia contraria e innaturale: cercherà, insomma, di aiutare il viscido rivale a ripulirsi la coscienza.
Con "Mi rifaccio vivo" Sergio Rubini torna alla commedia, non proprio originalissima, rifacendosi più o meno direttamente a temi e situazioni affrontate in film precedenti in chiave più seriosa e cupa prendendo spunto, binocolo alla mano, da "Il paradiso può attendere" di Warren Beatty. Anche se, bisogna riconoscere, che la situazione di un'anima disadattata al corpo viene direttamente da "Switch" (1991) di Blake Edwards. Il risultato non è però all'altezza delle risapute e solite ambizioni dell'autore. In chiave leggera il film in questione mostra grossi limiti di impianto, lungaggini vistose nello sviluppo narrativo e forzature caricaturali cucite addosso ai due protagonisti principali Emilio Solfrizzi (stazionario) e Neri Marcorè (insopportabile), mentre il pur bravo Pasquale Petrolo si defila lasciando la scena a comparsate di macchietta. Ad una prima parte appetibile piuttosto briosa ed interessante (compreso un aldilà molto vicino a quello di "Totò all'inferno"), ne segue una seconda tirata per le lunghe dove il film si avvita praticamente intorno a situazioni ripetitive che sembrano improvvisate. Rubini continua a ricamare attorno al tema dell'insoddisfazione, dell'invidia e del malcelato rancore della frustrazione da eterni secondi. Come ne "l'anima gemella", ricorre il tema del doppio che guida e regola il destino dell'altro. Tuttavia non si raggiungono mai i piani alti della commedia, magari fosse anche sofisticata, e tutto resta appiattito dai limiti farseschi, nemmeno poi tanto divertenti. Sembra quasi che l'allontanamento della prospettiva dai luoghi di appartenenza, da quella Puglia cioè raccontata con passione e amore in film che hanno rivelato un Rubini più vivace ed accorto dietro la macchina da presa, costituisca un rischio evidente e determinante ai fini della sostanza. Prestazione ordinaria, in definitiva, che stavolta mette a nudo anche evidenti crepe strutturali del film in fase di scrittura.
Cinema Impero, Trani - 11 Maggio 2013 |