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GRANDE GATSBY (IL)
Regia:
Baz Luhrmann
Interpreti:
Leonardo Di Caprio, Carey Mulligan, Tobey Maguire , Isla Fisher, Joel Edgerton
Durata: 144'
Nazionalità: USA/Australia 2013
Genere: drammatico
Stagione: 2012-2013
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Vittima sacrificale, creatura scomoda ed insidiosa a lungo meditata, predestinata a far storcere i nasi (con sotto la puzza) di chi si appresta, come sempre, a mettere sulla spalla dell'autore l'etichetta di appartenenza, come su una valigia, "Il grande Gatsby" è un classico film di apertura (stavolta è toccato a Cannes) che, sballottato fra rinvii e ripensamenti, non merita nemmeno per un istante d'essere paragonato alla terza variante ricavata quarant'anni fa dal regista inglese Jack Clayton, con Redford protagonista. Se l'accostamento fosse un vezzo necessario ed inevitabile, sarebbe più appropriato, infatti, azzardarlo con il grande e discusso testo di Scott Fitzgerald, trasposto in quattro circostanze (la prima, con un muto che fra un pò bacia il secolo), che trova in questo la chiave necessaria per collegare tutti i sensi al testo, illuminando a dismisura la scorciatoia che collega il cinema all'immaginazione. Nelle mani di Baz Lurhmann, esteta puntiglioso ed eccessivo al servizio dei fotogrammi in movimento, la favola triste del misterioso miliardario nel quale lo stesso Scott Fitzgerald rifletteva il sogno americano, infrantosi nello specchio delle illusioni, diventa un caleidoscopico e spettacolare viaggio nel culto delle immagini e dei suoni, perfetto per solleticare le corde dell'emozione. Il sovradosaggio di coreografie (attenzione, comunque, per fortuna non è una trasposizione musicale) mette a nudo la personalità complessa e sfuggente del magnate J.Gatsby, qui impersonato da un carismatico e generosissimo Leonardo Di Caprio, che nella opulenta New York della rinascita economica degli anni '20, ma anche degli abusi alcolici e della musica del diavolo, attira su di se l'attenzione del suo vicino Nick Carraway (Tobey Maguire), aspirante scrittore, rintanatosi nel Long Island in una modesta villetta adiacente al suo lussuoso palazzo dei sogni. Affascinato dalla fama di Gatsby e dalle sue sconfinate possibilità di esaudire i sogni attraverso i dollari, Nick si lascia inevitabilmente sedurre. Diventerà in brevissimo tempo il suo più grande confidente, il suo migliore amico, ma anche testimone involontario del suo lato oscuro, carico di passioni ed eccessi. Il folle amore di Gatsby per sua cugina, la bella ed infelice Daisy (Culligan), andata in sposa ad un'altrettanto ricca celebrità sportiva comprometterà in gran parte l'equilibrio esistenziale. Nick si lascerà travolgere dalla vita ingombrante di un uomo fondamentalmente solo, ricavandone con amarezza un bliancio in rosso, nel quale identificherà il nuovo fallimento della grande America.
Trasposizione ricca, che non rinuncia a nulla, nemmeno ad una concezione del cinema destinata ad irritare le esigenze etiche dei critici, ma ad assecondare di riflesso quelle estetiche del pubblico, questa di Baz Luhrmann rischia di avvicinarsi con incredibile verosimiglianza al sogno americano immaginato dalla penna del grande scrittore. Bisogna ammettere che ruotando attorno all'enfasi di immagini barocche, il film spenda smisuratamente le potenzialità del racconto, sacrificandole in un numero consistente di grandi sequenze (la prima festa, in assoluto, per ampiezza visiva e visionaria) fini a se stesse. Ma il rapporto sofferto fra l'inconsapevole biografo e il folle ed esuberante miliardario dal cuore spezzato viene fuori alla grande. Come già per l'Howard Hughes di "The aviator", Di Caprio con mestiere, credibilità e guizzi di ironia e sentimento, si destreggia al meglio fra la versatilità, gli umori accesi e le sconfitte intime del tycoon che riesce a comprarsi tutto meno la felicità. Indicato per non mettere a freno le scorribande visive di Baz Luhrmann, l'attore protagonista si schianta, anche stavolta, con il piede sull'accelleratore. Pur non lasciandosi alle spalle un capolavoro, merce rarissima in questo periodo duro, ne viene fuori un onesto e godibile film di apertura, appunto. Destinato ad illuminarsi sotto lustrini e pailettes nella serata evento. Il cinema, si sa, è altra cosa. Ma si ritaglia in questo spazio le basi giuste, magari le motivazioni per tornare quanto prima a prendersi sul serio.
Cinemars, Andria - 18 Maggio 2013 |
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Alessandra Di Nunno - 18/05/2013 23:10:33
È davvero grande il Gatsby di Baz Luhrmann? A giudicare dalla reazione della critica mondiale, la risposta è negativa. Dopo un infausto weekend di apertura negli Stati Uniti, la storia del misterioso Jay Gatsby sbarca a Cannes, dove apre la 66esima edizione del Festival del cinema. Se sul tappeto rosso la folla impazzisce per il cast e implora Leonardo Di Caprio di sorridere a suon di: “Gatsby! Gatsby, ici”, in sala, a proiezione finita, cala il silenzio. Nessuno applaude, le lacrime non scendono ma le sopracciglia si aggrottano.
Il cinema di Luhrmann è cosa ben nota: l’australiano è un cineasta circense, che ammalia lo spettatore a suon di lustrini e gambe che volano alte e lo catapulta, senza permesso, in un’esperienza metafisica che coinvolge la totalità dei sensi. L’esperimento è riuscito in Romeo + Juliet, ma è in Moulin Rouge che il genio artistico di Luhrmann ha potuto esplodere in tutto il suo essere caotico: la storia d’amore e arte tra lo squattrinato Ewan McGregor e l’eterea Nicole Kidman è un tripudio di costumi scintillanti, trucco esagerato, balli forsennati e musica caleidoscopica che porta sullo schermo l’eccesso sfrenato e vertiginoso che impazzava nella Parigi bohémienne.
Dopo aver fallito con il cinema più canonico di Australia, il ritorno di Luhrmann alla regia è una scommessa già dalla scelta della storia, che ricade sulla parabola americana dell’eroe sognatore scomunicato dalla realtà materialista e consumista degli anni ruggenti. Gli elementi per stupire ci sono tutti: si recupera Leonardo Di Caprio, il giovane Romeo che indossava camicie floreali, lo si fa diventare padrone di un castello stregato, e lo si fa struggere per gli occhi da cerbiatta della giovane Carey Mulligan.
Il tutto condito con costumi dalle cifre vertiginose firmati Prada e Brooks Brothers e una colonna onora che è già diventata leggendaria. Sembrerebbe la cronaca di un successo annunciato, eppure il film (ben 143 minuti di visione) non decolla.
Non sono gli attori a fare stizzire i critici: Leonardo Di Caprio convince. Si muove fiero e sinuoso nel suo eccentrico completo rosa a strisce bianche, sfoggia il solito sorriso birichino con qualche elegante ruga in più, ed emoziona mentre concede alla macchina da presa di cogliere il magistrale tentativo di nascondere la fragilità e l’idealismo di Gatsby. Stupisce la Mulligan, che veste i panni bianchi e costosi dell’eterno amore di Jay, Daisy Fay. Sbatte ciglia e tacchi come Fitzgerald comanda e si lascia andare a pianti facili e sbalzi d’umore repentini degni di Naomi Campbell. Meno e fresco e nuovo è il Nick Carraway di Tobey Maguire, intrappolato nelle vesti di un uomo devastato dal corso degli eventi che trova pace nella scrittura: è un cliché nella filmografia di Luhrmann, poiché questo prototipo di personaggio è stato già visto (e passionalmente amato) nel protagonista maschile de Moulin Rouge. Se è il confronto tra le due figure che il regista cercava, la sua creazione gli si è ritorta contro perché Maguire non regge il paragone con il tormento malinconico trapela dagli occhi di McGregor.
Forse, l’errore è proprio questo: l’estetica vincente del musical del 2001 viene ripetuta ed estremizzata per il romanzo americano, ma finisce per falsificare il dramma esistenziale di Gatsby. La sensazione, con o senza la visione in 3D, è quella di costringere chi è debole di stomaco a salire sulle montagne russe. I primi piani aggrediscono lo spettatore come fossero pugni, le panoramiche artificiose lo portano sui grattacieli di New York per catapultarlo poi nelle viscere oscure e grigie della città. Il viaggio è entusiasmante, i sensi sono all’erta, ma Luhrmann pare solo sfiorare in superficie l’atmosfera di cristallo degli anni ’20, quasi non avesse il coraggio di squarciarla e di portarne alla luce l’essenza conturbante.
Il fasto delle feste ospitate nella maison Gatsby e il fascino proibito di festini lussuriosi si pongono all’attenzione dello spettatore in maniera totalizzante, coprendo l’altra (e più importante) faccia della storia di Fitzgerald, quella della sconfitta dell’inattaccabile fiamma che alimenta un ideale di speranza che non può esistere a causa dal vuoto morale che porta con sé il boom economico. Manca lo sguardo critico ed impietoso sulla corruzione degli animi e dei costumi del tempo, sul senso di solitudine che circonda Gatsby e sulla frivolezza arrogante dei frequentatori abusivi dei suoi salotti. Il regista decide di ridurre gli eventi ad una semplice storia d’amore; così ci si dimentica che l’ossessione nutrita ed edulcorata nel corso degli anni per la foolish Daisy, è solo uno dei temi del racconto di Fitzgerald, probabilmente il più lampante ma di certo non quello a cui Gatsby deve il suo successo. La sua è, prima di ogni lacrimoso sospiro d’amore, la storia emblematica del tramonto del sogno americano, sostituito dall’incomunicabilità assoluta delle relazioni.
Il fascino più originale dell’opera letteraria si cela nel contrasto silenzioso di pochi ma dettagliati quadri di festa in opposizione ai silenzi del protagonista: tale equilibrio è traviato e falsificato dal regista che, nella speranza di ricalcare il successo ottenuto con l’amore tra una prostituta ed un artista, si ripete e stordisce. Sembra quasi che Luhrmann abbia “commercializzato” Gatsby: che ritenga che l’unica maniera per renderci vicina la sua vicenda sia quella di svuotarla di senso e venderla con l’abituale e proficuo format lui-ama-lei-e-lei-chi-acciderbolina-ama? Sarebbe un grave peccato pensarla in questa maniera, perché oggi viviamo proprio nella società che ha condannato Gatsby; raggiungere le masse con un esempio di tale forza interiore sarebbe potuto essere un buon, seppur temporaneo, antidoto, un’occasione per riflettere su tutti i Gatsby (ce n’è uno in ognuno di noi) che zittiamo di continuo. Terminato il film, invece, il pubblico sembra spaesato dopo essere stato bombardato di colori e musica a toni da festino adolescenziale; c’è anche chi si chiede, sussurrando: “Ma quindi, esattamente, cosa voleva dire questa storia?”.
Se si è cultori del cinema di Luhrmann lo spirito con cui andare a vedere il suo ultimo film è quello di vedersi costretti ad obliterare la versione originale, perché, in ultima battuta, questo pare proprio essere il suo film, non quello di Di Caprio, né quello di Gatsby, e tantomeno quello di Fitzgerald. Dimenticate la voce amara ma posata della narrazione originale, perché viene tirannicamente schiacciata da un’estetica ridondante che si rivela essere, fino all’ultima inquadratura, “estetica anestetica”.
- Alessandra Di Nunno
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