Troppi sassolini nelle scarpe strette di un Pupi Avati che sembra dilatare oltre l'inverosimile l'annunciata trilogia dei "padri", che ha lasciato comunque il buon ricordo di qualche pellicola riuscita. "Un ragazzo d'oro" sembra un film fuori tempo massimo, al di là di alcune vistose sbavature che è davvero antipatico approfondire, dove si annida una tensione da parte del regista che, rabbuiato da un livore che mette quasi a disagio, finisce con il rasentare l'invettiva sterile. Un po' come Brass che quando ce l'aveva con i critici che lo stroncavano storpiava i nomi sulle lapidi, anche il regista bolognese giunto al fotofinish del suo quarantesimo film per il cinema, sembra essersi smarrito nella ferita aperta e mai rimarginata delle categorie del cinema. Penne sopraffine che si perdono per ragioni alimentari nelle paludi del cinema di serie B e famosi registi americani colpevoli di eccessive rivalutazioni. Tutto materiale già assaporato in un certo senso ne "La cena per farli conoscere", che ruotava più o meno intorno ad un tema simile. Morale della favola: i figli non riescono ad essere all'altezza dei padri. O devono sopportare l'onta delle malefatte del passato o, a stento, in un paese dove la meritocrazia non esiste, possono lasciarsi morire di disperazione. Davide Bias (Riccardo Scamarcio) fa il pubblicitario ma sogna una carriera di scrittore. Gli editori tuttavia, pur riconoscendogli interessanti capacità, non accettano la sua letteratura in forma di racconti brevi. E Davide, per tutta risposta, non ha alcuna intenzione e nemmeno ha la forza per cimentarsi in un romanzo. Quando suo padre Achille, navigato sceneggiatore di filmetti di genere, muore in circostanze poco chiare, per Davide sembra farsi avanti la prospettiva di una rinascita. Pur odiando il suo ingombrante e assente genitore, comincia a capirlo alla distanza, alla luce dei piccoli segni che gli ha lasciato. Nel computer di suo padre, infatti, Davide ritrova tutti quei fogli sparsi che la sua mente deve solo ricomporre. Il ragazzo comincia lentamente a capire tutto l'amore inespresso ma, sulla via del pentimento, perde la bussola. Complice un'ambigua ed onnipresente editrice (Sharon Stone) che spinge per rilanciare le potenzialità di scrittore del padre scomparso.
E' un film maledettamente poco riuscito, condizionato da alcuni vistosi intoppi narrativi, da una struttura debole e dall'eccessiva presenza del protagonista Riccardo Scamarcio, volenteroso e generoso, che di fatto domina il campo a sfavore. Lo affianca una Sharon Stone, non si sa fino a che punto inserita per ragioni di mercato, che replica con un incredibile fascino dove la poesia per gli occhi si interrompe a causa dei fuori sincrono del doppiaggio. La buona fotografia a pieno regime di Blasco Giurato e gli ottimi temi musicali di Raphael Gualazzi che insegue lo stile del grande Riz Ortolani servono soltanto a tamponare con efficacia tecnica una debolezza strutturale nel quale a volte si rasenta il ridicolo involontario, laddove alcune battute sembrano inchiodate sulle labbra del trafficato numero di caratteristi e partecipazioni amichevoli. Il film insomma non ha un'anima densa, si perde in picchi di noia, non aggiunge nulla al delicato argomento genitori/figli che Avati con mano ferma e polso sicuro ha affrontato con maggiore convinzione nelle sue opere precedenti. Un peccato anche vanificare le potenzialità del flashback che apre il film con una breve sequenza ma che non ha lo spazio che merita. Un film indolore, tuttavia, che vale quanto una sosta forzata nella carriera frenetica del suo prolifico autore.
Cinema Alfieri, Corato - 21 Settembre 2014 |