Folgorato da spettatore sulla via del Decameron, Abel Ferrara, tenta un'azzardata incursione in territori già esplorati in chiave però cronachistica e processuale da Marco Tullio Giordana quasi vent'anni fa, con il suo "Pasolini". Ne viene fuori un lavoro imbevuto di contaminazioni e buone intenzioni, che mette molta carne sul fuoco vivo della conoscenza dei fatti antecedenti alla brutale scomparsa del poeta, obbligando lo spettatore comune ad esserne consapevole per seguire meglio la trama. Abel Ferrara incrocia gli ultimi tre giorni di vita del protagonista con le immagini relative ai progetti irrealizzati: dall'incompiuto romanzo scomodo "Petrolio", del quale lo scrittore racconta tre fasi (il pratone della Casilina, il ricevimento nobiliare e il disastro aereo in Sudan) al film "Porno-teo-Kolossal" che avrebbe dovuto girare dopo "Salò", affidando la parte principale al grande Eduardo. Vengono ricostruite alcune fasi della sceneggiatura con i due protagonisti Epifanio e Nunzio che inseguono una cometa, facendo tappa nella città di Sodoma, sperando di trovare il Messia, ascendendo verso un Paradiso che non si raggiunge mai. Ma le parti più ispirate sembrano essere quelle relative agli ultimi movimenti dello scrittore friulano: dall'intervista inquietante rilasciata il 31 ottobre, prima del suo rientro da Stoccolma, e in casa per la Stampa da Furio Colombo. Tristi presagi e allarmante puzza di censura per un film ("Salò") che Pasolini stesso pose in antitesi rispetto alla trilogia della vita, rifiutata per un successo commerciale che di fatto ne contaminava le ragioni. E' un Pasolini preoccupato e indifeso quello che la mattina riceve il bacio dalla madre e la sera esce di casa a bordo della Giulietta grigia la notte del 2 novembre andando incontro al suo appuntamento con la morte. Un Pasolini che ritrova Ninetto, l'amico di sempre, finalmente felice al biondo Tevere, ne spupazza teneramente il figlio, gli parla del suo prossimo film e poi prosegue la sua notte isolata dalle parti di piazza Esedra. L'incontro con Pelosi, la sosta al Pommidoro per una cena veloce e la corsa fatale verso Ostia ("ne vale la pena").
In un epilogo classico, chiaramente a tesi, Ferrara incrocia due sorprendenti commenti musicali che veicolano l'asse emozionale: il "canto delle lavandaie del Vomero" eseguito da Roberto Murolo per il tragitto della morte verso l'idroscalo e la romanza "Una voce poco fa" di Maria Callas ("Il barbiere di Siviglia") che chiude le fasi cruente dell'eccidio. Ferrara ritrova in sostanza i limiti di certo suo cinema recente, questa potenzialità del racconto, ingabbiato da alcune grossolanità imbarazzanti (la danza della fertilità forse un po' in debito con una sequenza de "La pelle" della Cavani), da alcuni attori fuori ruolo (pensiamo a Scamarcio e alla De Medeiros) e da un accumulo di peccati non proprio veniali attraverso un uso smodato della macchina da presa, il film è comunque servito più o meno degnamente dallo script di Massimo Braucci ("Gomorra", "L'intervallo", "Anime nere"), abile nel soffermarsi non solo sull'anima del poeta, ma nella sua corporalità. In questo il film trova in Willem Dafoe un attore sorprendente, verosimile, efficace, una chiave vincente nonostante le discrepanze di doppiaggio. L'attore americano sembra immergersi con tutto se stesso in un ruolo difficilissimo, trovando un'apertura meravigliosa (l'intervista e il missaggio di "Salò") e cogliendo sfaccettature autentiche. Un film più appassionato che riuscito, comunque da vedere. Che riapre vecchie ferite e che farà storcere il naso ai pasoliniani più accaniti.
Cinema Opera, 26 Settembre 2014 |