"Il titolo è ironico", avverte Marco Giusti, ma anche esposto al più classico degli effetti boomerang. Tuttavia si passerebbe per bischeri, volendola dire con l'idioma del regista protagonista, se ci esprimesse con uno scontato "tutto molto brutto". Il cinema, si fa per dire, di Paolino Ruffini è, se vogliamo, profondamente onesto. Si rivolge alla pancia più che alla mente degli internauti che postano e consultano video su you tube e che probabilmente si riuniscono tracannando bibite gassate, liberando gli orifizi davanti a cose seriali tipo "Una notte da leoni", che comunque hanno origini degne. Pur tenendo a bada la giovane star Frank Matano, che con Jim Carrey ha in comune forse l'unghia del pollice, e rinunciando ad un abuso di comicità corporale che aveva caratterizzato il primo film "Fuga di cervelli", accolto da buoni incassi (e questo è il guaio), Paolino Ruffini non fa altro che rifare il classico buddy movie in salsa demenziale on the road, partendo dal decalco di "Un biglietto in due" di John Hughes. I due personaggi principali, lui serioso e impeccabile impiegato delle agenzie delle entrate, l'altro nullafacente partenopeo dal sorriso smagliante, si incontrano per caso in un reparto maternità dove stanno aspettando la nascita del loro primo bambino. L'invadenza di Frank Matano costringe il povero Ruffini a sottostare ad una lunga e folle nottataccia, funestata da psicopatici con la lupara, emiri che organizzano baccanali (il momento più riuscito di un film che non lo è), strambi cantanti neomelodici col parrucchino e l'amichevole partecipazione di Enzo Ghinazzi, in arte Pupo, che si autocita al tavolo del blackjack. Non sta a noi perderci nei meandri critici di un film che riesce a farne volentieri a meno ma, pure se fosse, non se ne riscontrebbero comunque le pretese: il film non è altro che un insieme slegato, unito alla buona e meglio di sketch assurdi confezionati in forma di un incubo allegro. Ruffini, per carità, ha preso da tempo le distanze con la commedia impegnata, quella scritta col pugno robusto e, nonostante la retorica di un happy end compiacente, vuole solo solleticare il bassoventre di un pubblico di ragazzini che, anche stavolta, non declinerà l'appuntamento. Però non bisogna generalizzare questa recente tendenza con lo stracultismo che è una forma di pensiero fatta di elementi oggettivamente più consistenti e rilevanti anche dal punto di vista storico.
Ma il cinema, si sa, quello d'intreccio è un'altra cosa. Anche se qualcuno dovrebbe spiegarci cosa ci fa il Guido Chiesa de "Il partigiano Johnny" già alla seconda sceneggiatura per Ruffini. E allora bisogna chiedersi se queste nuove generazioni non farebbero meglio a rapportarsi ogni tanto con il vituperato buco nero del decennio italiano '70-'80 che fece ammalare di fegato i critici seriosi che scrivevano di Cicero e Tarantini le stesse invettive rivolte negli anni precedenti a Mattoli e Bragaglia quando avevano nomi eccellenti in scuderia. E' cambiata la percezione della comicità, ma in questi anni non si sta facendo altro che rinnegare l'umorismo voltandogli le spalle. Il disagio che lo spettatore pensante esprime davanti a questo vuoto (e non si parla di volgarità, per carità, il film forse ne è pure scevro) è quello di un viaggiatore inerme che attende il buon gusto in forma di oasi. Anche scriverne male, per quanto ci riguarda, mette tristezza. E l'assenza di divertimento in chi assiste ad un film che vorrebbe risultare comico e non lo è quasi mai sta proprio nell'aver assimilato tanto cinema del passato. Un esempio? Niccolò Senni che scatarra, si scaccola e si tocca al ristorante potrebbe avere due fonti: il barista sporcaccione di "Blazing saddles" e Cloaca Massimo di "F.F.S.S." di Arbore. Due prodotti comunque ignoti a queste generazioni neutre sulle quali stiamo incidendo con una matita spuntata.
Cinema Elia, Corato - 10 Ottobre 2014 |