Queste ultime trasposizioni dirette da Tomas Alfredson e Anton Corbijn esaudiscono in pieno lo spirito intimista e diciamo così, soffuso e veritiero, di John Le Carrè. Il precedente in una chiave narrativa più sofisticata, complessa e rigida, fuori quindi dagli schemi della spy story cinematografica abituale, questo in una forma esplicativa più lineare e scorrevole. Entrambi però alla fine risultano senz'anima, rinunciano certo al ritmo, sacrificando la principale motivazione alla base dei film di spionaggio: il divertimento. Tratto da un romanzo recente di Le Carrè ("Yssa il buono", 2008), il film ne attualizza l'ambientazione. Nell'Amburgo dei giorni nostri, con i nuclei anti-terrorismo e i servizi segreti tormentati e sconvolti dalle falle operative dell'11 Settembre, Gunther Bachmann (Phillip Seymour Hoffman alla sua ultima apparizione) è un agente in preda ai vizi dell'attesa: alcool e sigarette accompagnano la sua solitudine. Per sua scelta infatti Bachmann è un cane sciolto, che si tiene alla larga dai federali e dall'Intelligence, per non contaminare le sue indagini personali. Sulle tracce di un facoltoso filantropo musulmano sospettato di sostenere le cellule terroristiche attraverso la sua raccolta fondi tramite donazioni, Bachmann si imbatte in Issa Karpov, figlio di un ricco attivista ceceno, venuto ad Amburgo per riscattare l'eredità paterna. Nell'intrigo subentrano un ambiguo banchiere, un'avvocatessa che tutela i diritti umani dei clandestini e alcuni agenti della CIA, molto più pragmatici e sbrigativi.
Film d'atmosfera, girato interamente in un'Amburgo livida e spettrale, "La spia" recupera in parte le suggestioni dei grandi classici del passato. Certo Corbijn ha un tocco autoriale che mette da parte volentieri la tensione dello spettatore, in virtù di un realismo molto più concreto e che, forse per questo, tradisce le aspettative. Attraverso il ritratto di un agente tenace e perdente, Corbijn consente al suo protagonista Phillip Seymour Hoffman, scomparso la scorsa estate, di regalarci una prova straordinaria e commuovente. La trasposizione resta in definitiva sospesa fra la pregevole fattura tecnica (bellissima fotografia di Benoit Delhomme) e i tentativi spiazzanti, a volte anacronistici, di cucire una credibile trama spionistica che ha ben poco di avvincente, se non appunto, il fascino dell'ambientazione europea. Il cinema di Corbijn però nonostante tutto (e il precedente discutibile di "The american") risulta concepito con arte e maestria. Potrebbe e dovrebbe continuare a non cedere alle tentazioni commerciali per arrivare ad un grado di maturazione non poi dissimile da Pakula, Lumet e Frankenheimer che hanno reinventato con fortuna il genere, rinnegando il banale esotismo del cinema della guerra fredda.
Uci Cinemas, Molfetta - 2 Novembre 2014 |