Un'altra favola triste di un autore in credito col cinema, quella di Claudio Caligari, piemontese classe 1948, scomparso qualche mese fa col film in fase di montaggio. Un altro sacrificio discreto, silenzioso, di un regista costretto ad inseguire a fatica il travaglio produttivo e realizzativo in un contesto, ormai senza alcuna speranza, di un cinema votato alle assurde e rigide (in negativo) regole di mercato. Portato per mano da amici, appassionati che ne hanno condiviso un percorso professionale ed umano esemplare, questa uscita postuma suona tanto come una coscienziosa transazione poco appagante, ma necessaria per gettare forse un ultimo grido disperato d'un cinema vitale che si ritrova soffocato nella mischia. Eppure la storia di questo uomo col cassetto pieno di sceneggiature che per anni non hanno visto la luce, che è riuscito a malapena a girare tre film nell'arco di un trentennio, stimato dagli addetti ai lavori, tenuto ai margini da un sistema produttivo di funzionari e di irresponsabili addetti alla svendita, dovrebbe svegliare le coscienze di un pubblico, orientarlo più su un cinema d'espressione che di futile intrattenimento. "Non essere cattivo" può essere intepretato come il seguito ideale di quell'"Amore tossico" voluto fortemente da Marco Ferreri tant'è che il film si apre con una autocitazione diretta per poi spargere frequenti riferimenti con l'opera precedente. Vittorio e Cesare sono due amici per la pelle che condividono in un'Ostia a metà degli anni '90 una frenetica vita di sballo e delinquenza. Vivono per le droghe sintetiche, la smerciano, si fanno, trascorrono il giorno fra la spiaggia e il baretto che è un pò l'ufficio di collocamento virtuale delle malefatte. I due hanno però situazioni familiari diverse: Cesare ha la mamma a carico e la nipotina malata, Vittorio si innamora invece di una ragazza madre e decide di smettere. Voglia di riscatto praticamente impossibile, con le sporadiche uscite dal tunnel delinquenziale per fugaci buoni propositi: rigare dritti al cantiere, smetterla con la roba, mettere su qualche piotta in altra maniera. Fuori il mondo spietato della borgata che ti inghiotte inconsapevolmente, come un tragico destino che non lascia scampo.
La sceneggiatura scritta da Claudio Caligari con Francesca Serafini e Giordano Meacci inquadra perfettamente il dissesto esistenziale, l'inevitabile spaesamento di due ragazzi uniti da un forte sentimento amicale di complicità e protezione, di forti passioni che si schiantano sulle disgrazie del presente. L'ambientazione nel cuore degli anni '90 da parte del regista cerca di inquadrare a livello storico l'ultimo rantolo degli eroinomani del decennio precedente, il conseguente passaggio alle droghe sintetiche e all'isolamento nei luoghi di disgregazione: discoteche, privè, ronde notturne. Chi individua in Caligari l'ultima vera contaminazione pasoliniana (nel primo film era più forte la presenza dei luoghi del martirio del poeta) abbozza soltanto una legittima interpretazione su un mondo che sta scomparendo fino a manifestarsi irriconoscibile. Certo è che in questo forte e disinteressato amore virile, separato dal potere femminile con le sue illusorie prospettive di accasamento, si intreccia con maggiore pertinenza il mondo di Citti, che su quella riviera ci ha ambientato più di un film. Ma Caligari, che procede autonomamente con risolutezza, verso un realismo senza "neo", pone con discreta violenza lo spettatore davanti ad uno scenario autentico, per certi versi lontano, che lui conosceva benissimo. Servendosi da un punto di vista tecnico di una pregevole fotografia (Maurizio Calvesi) e di due giovani attori professionisti (Luca Marinelli e Alessandro Borghi), meravigliosamente in parte. Molto più grave da accettare, da parte nostra, questo mancato ricambio autoriale. A suo modo il nobile occhio attento di Caligari resta circoscritto in una trilogia che verrà in futuro celebrata, scandagliata, rivalutata. Quello che fa rabbia è che tutto questo avvenga a giochi fatti, ad esistenza finita. Perchè una prospettiva così importante avrebbe meritato maggiore attenzione e sensibilità. Una favola triste, appunto, al quale si rivolge in chiusura quello stesso sorriso innocente di un epilogo in cui si percepisce un saluto e non un addio.
Cinema Roma, Andria - 11 Settembre 2015 |