Uno dei pochi rimasti, se non l'unico, registi enigmisti torna a "cinementarsi" (neologismo) con un'opera, a detta di alcuni minore, tornando per l'ennesima volta alla sua terra natìa. Quella Bobbio (Pc) dove cinquant'anni fa si intascavano i pugni e che è stata sempre culla del dissidio interiore, fra cattolicesimo e furore laico, spesso sconvolto da scossoni idealistici, manovre psicanalitiche e qualche pausa defatigante, ma non per questo più facile, che poco ha pagato. Marco Bellocchio stavolta osa nella costruzione di un racconto che nella sua dilatazione temporale percorrendo due tronconi distinti, gli consente di giocare la carta del ricorso storico, della discussione politica sulla deriva centrista anni '70 (un cruccio che l'accompagna da tempo), con ambigui reduci (a)sociali con massoniche abitudini costretti a nascondersi nottetempo nelle celle di una prigione come in quel famoso giallo di Sciascia ambientato nell'eremo Zafer. Il nucleo del racconto diventa pertanto un monastero di clausura dove nella prima parte ambientata nel '600 si racconta la tragedia di Federico Mai (Piergiorgio Bellocchio), giovane cavaliere, venuto a chiedere degna sepoltura per l'infelice fratello gemello sacerdote Fabrizio, morto suicida in circostanze che l'inquisitore farà presto a chiarire, preda sventurata della giovane suora Benedetta (Lidiya Liberman), accusata di stregoneria. Travolto da sgomento e mistero, ospitato da due sorelle vergini attratte dal suo fascino che gli scalderanno il giaciglio per la notte, Federico subisce il fascino della ragazza che stenta a confessare le sue frequentazioni col maligno. L'epilogo, atroce ma non irreversibile, mostra un chiaro supplizio: imprigionata viva all'interno del monastero, Benedetta passerà gli anni in attesa di un probabile pentimento. Federico, nel quale, ha rivisto l'anima del fratello scomparso, pur potendo rinuncerà a salvarla. Si passa quindi al secondo frammento, ai giorni nostri, con un misterioso Conte (Roberto Herlitzka) che si nasconde nelle celle dello stesso convento che a cinquecento anni di distanza fra incuria e disinteresse comunale, rischia di diventare un bene del demanio da alienare. Si presentano in due, un faccendiere ed un russo, a rivendicarne il possesso, minacciando di sconvolgere la piatta esistenza dei concittadini che, come ne "L'ispettore generale" di Gogol, cadono in preda al panico. L'occasione metterà in luce la complicata rete gestita dal Conte che in modo vampiresco fa gli interessi suoi e della comunità. Ma il nuovo è all'orizzonte e il nuovo, si sa, spaventa sempre.
E' un mondo distante, una terra di mezzo dove attraverso i cicli temporali si rinnovano antiche battaglie di inquietudini, tormenti interiori e forte nostalgia. Circondato da citazioni, riferimenti personali, attori a lui cari (molti fra questi consanguinei), Bellocchio gioca fra magia e ironia in due frammenti non molto diversi fra loro, illuminati dalla meravigliosa fotografia di Daniele Ciprì. C'è una forte e divertita analisi di vampirismo sociale, di comunità poco addomesticabili, un desiderio di legalità e un dialogo folgorante fra il vampiro Roberto Herlizka e il dentista Toni Bertorelli che suona come un conformistico ma lucido totale. Bellocchio tra l'altro tira in ballo alcuni temi sviluppati in epoche lontane (pensiamo al fratello suicida per amore de "Gli occhi, la bocca" (1982) e alla strega de "La visione del sabba" (1988) come spunti narrativi) che qui si ritrovano attraverso un complicato, impervio ma affascinante percorso con i tormenti personali che ha sempre sviscerato servendosi di metafore. Un'opera realizzata in economia (ma questo non traspare), con l'ausilio di partecipazioni speciali, piacevoli scoperte (Lidiya Liberman), che omaggia romanticamente il gotico (un genere che non si fa più, di recente ci ha provato Garrone) e che si avvale come al solito di piccole complicità che restringono il campo di fruizione alla cinefilia più autentica.
Cinema Opera, Barletta - 13 Settembre 2015 |