L'apocalisse è un governo che si sbriciola e cade come la pioggia purificatrice su una Roma livida, irroconoscibile, avvolta nel frastuono di luci e rumori che ne ammantano l'anima nera. L'apocalisse è un pontefice che con inatteso dolore medita di abbandonare il santo soglio mentre poteri forti e criminalità stringono in segreto patti, alleanze, si spartiscono il dominio della città impugnando coltelli e pistole. Bentornato noir italiano! Seriale o numero zero, poco importa. Stefano Sollima, già autore apprezzato per la serie televisiva di "Gomorra", costruisce un film visivamente potente, significativo, un collaudato meccanismo cinematografico di precisione con personaggi superati dalla vita reale, negativi antieroi che la cronaca recente ha fatto affiorare dallo strato melmoso ed omertoso delle trame oscure fra parlamento e criminalità. Costruito con un sistema narrativo ad intreccio, con le tre vicende principali che si intersecano con minimi gradi di separazione, "Suburra" parte dall'occultamento di cadavere di una prostituta minorenne che scatena, nei difficili giorni della crisi di governo del novembre del 2011, un putiferio fra bande rivali legate alla criminalità organizzata, parlamentari corrotti e viziosi, vecchi capoclan che si sono tirati fuori dalla delinquenza spicciola, puntando dritti verso l'alta finanza della speculazione edilizia. Ne sono coinvolti: un politico (Favino) che ricorre spesso alla malavita per risolvere le sue grane personali di droga ed escort, un maturo e solitario gangster (Amendola) della vecchia guardia che vuole una tregua per catapultarsi in un colossale giro d'affari legato ad investimenti con capitali non soltanto laici, una violenta testa calda (Borghi) dai modi sbrigativi, che gestisce il business del litorale, un timido organizzatore di eventi (Germano) che ha le mani in pasta in tutto il ricattabile jet-set che è ai suoi piedi ed infine un pericoloso e violento usuraio (Dionisi), capofamiglia d'una banda di zingari, ai quali incautamente uccidono il fratello minore. Sollima scandisce i sette giorni caldi che portarono alla caduta del governo Berlusconi come quelli di un nuovo impero romano precipitato in modo inevitabile, trascinando nel precipizio tutto e tutti. Preludio evidente di una politica viscida e corrotta, legata a doppio nodo con l'imprenditoria criminale delle bande di Ostia in lotta armata con i cravattari della capitale. Tratto dall'omonimo romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo (Einaudi) con titolo di richiamo (scelta editoriale, pare) al quale hanno dato una risistemata da fiction le mani esperte della coppia Rulli/Petraglia, è a tutti gli effetti un numero zero, un collaudo essenziale per la destinazione d'uso dei monitor. Si sa già da adesso che nei prossimi anni diventerà una serie esclusiva Netflix (che finirà sulle reti Rai con qualche anno di scarto). Ma quanto profumo di cinema, andrebbe rimarcato. Stefano Sollima dirige con mano esperta questo western metropolitano dove a parte l'uso invasivo e frastornante di lunghi temi sonori, si evidenzia il perfetto lavoro di luci di Paolo Carnera (l'occhio luminoso del Salento di Winspeare) e una linearità piuttosto convincente fra attori e ruoli. Sollima pone sulla bilancia il peso di una visione filmica invidiabile e un'utilizzo disinvolto e sicuro dei meccanismi noir, un genere in Italia poco praticato o praticabile per questione di generale manifesta incapacità e scarso coraggio. E' un film che conquista attraverso la bellezza delle inquadrature, gli eccessi sempre in linea con il peso specifico dei temi trattati, nella totale assenza di demagogia da prima serata o transazioni telefilmiche. Non so quanto gli sarà consentito sbizzarrirsi in sede di canale a pagamento, ma già in questo esempio evidente di cinema dove i mezzi collimano con le intuizioni, Sollima ha portato a termine con ottimo rendimento il proposito non facile di serialità, in un contesto comunque inflazionato. Conferme e sorprese fra gli attori protagonisti: su tutti un Claudio Amendola cinico e freddo giunto ad una spaventosa maturazione. Se la realtà inquadrata spaventa, rincuora la possibilità che ci sia ancora nel nostro paese un cinema in grado di raccontarla con feroce realismo e con apprezzabile rigore. Figlio d'arte, sembra avere nel cuore e nella mente la lezione di "Città violenta" (1970). Colpisce dritto al cuore senza troppa retorica, lasciando addosso l'umidità benefica del sano cinema di genere.
Cinema Impero, Trani - 17 Ottobre 2015 |